In Marocco, il virus non è solo una questione sanitaria

Un articolo di Isabella Panfili, rappresentante paese di ISCOS Marche in Marocco.

Sono 1.113 i casi confermati di coronavirus in Marocco alle ore 13:00 del 06 Aprile 2020. 71 i decessi, 76 i guariti, 3954 i casi esclusi in seguito a tampone.

La decisione del Governo marocchino di chiudere tutti gli aeroporti a partire dal 20 Marzo, dichiarando lo stato di urgenza sanitaria e applicando immediatamente le misure di contenimento, si è dimostrata la scelta più giusta, in un paese il cui sistema sanitario soffre di mancanze strutturali tali da non poter in alcun caso reggere la sfida di una epidemia delle stesse proporzioni di quella che sta colpendo Europa e Stati Uniti.
Al di là dei dati specifici (regolarmente aggiornati dalle autorità competenti per cui se interessati ad un monitoraggio in diretta vi consiglio di consultare il sito ufficiale del Ministero della Salute marocchino), vorrei usare questo spazio per una riflessione su alcuni elementi di criticità che la diffusione del COVID-19 sta portando alla luce, scoprendo vulnerabilità e elementi importanti di sottosviluppo di cui ancora soffre il paese, nonostante i grandi passi avanti degli ultimi anni. In primis, come già dicevamo, l’incapacità delle strutture ospedaliere pubbliche di rispondere al bisogno di salute dei cittadini, per l’obsolescenza dei locali e delle infrastrutture, per la diffusa mancanza di attrezzature e dispositivi di protezione, per la carenza di personale qualificato e infine per la frequente difficoltà di reperire medicinali che vadano oltre l’ordinario. Aggiungiamo a questo la mancanza di un welfare esteso e di meccanismi condivisi per la protezione dei cittadini e dei lavoratori, in un contesto di forti diseguaglianze interne, sia di tipo orizzontale (tra “ricchi” e “poveri”) che verticali (tra urbano e rurale, ma anche tra Nord e Sud del Paese).
Per quanto riguarda le misure prettamente sanitarie, 2 miliardi di dirhams (circa 190 milioni di euro) sono stati allocati dal Fondo Speciale per la lotta alla pandemia da Coronavirus creato da Sua Maestà il Re Mohammed VI per la riqualificazione del sistema sanitario pubblico, con l’identificazione di strutture su tutto il territorio nazionale specializzate per la presa in carico terapeutica di casi di COVID-19. Anche le strutture private sono state chiamate dal governo a contribuire in caso di bisogno, qualora la situazione per il pubblico dovesse in futuro divenire ingestibile. Importante è stato inoltre il coinvolgimento dell’esercito, degli ospedali e della medicina militare nella gestione delle operazioni di prevenzione e messa in quarantena ma anche di presa in carico e cura dei casi di contagio.
Nelle sue fasi iniziali, l’epidemia di COVID-19 in Marocco sembrava riguardare in via esclusiva Europei venuti in viaggio (per piacere o per lavoro) oppure marocchini “di ritorno”. La spirale si è poi ovviamente allargata, andando a toccare anche i residenti, che costituiscono ormai la maggioranza dei contagiati. Si consideri a riguardo che il modello abitativo preponderante in Marocco è quello della famiglia allargata, per cui si vive tutti insieme, condividendo spesso spazi anche piccoli, laddove ognuno porta il suo contributo all’economia familiare. In un paese in cui il numero di disoccupati ha raggiunto 1,2 milioni nel 2017, ovvero circa il 10,2% della popolazione attiva, l’accesso al lavoro non riesce di per sé a garantire un tenore di vita dignitoso (cfr Rapporto Bank Al Maghrib 2017). Un lavoratore dipendente su cinque non è retribuito e il potere contrattuale dei lavoratori sui datori di lavoro è quasi inesistente, come testimoniato anche dalla difficoltà dei sindacati locali ad “entrare” nel settore privato e soprattutto nelle piccole e medie realtà imprenditoriali, spesso informali. Quasi 8 dipendenti su 10 non hanno copertura medica e molti non sono affiliati a nessun sistema pensionistico, a fronte di un livello medio dei salari che rimane comunque basso tra i lavoratori del privato, circa 2.800 dirhams mensili (270 euro circa) nei settori dell’industria, del commercio e nelle professioni liberali e 1.813 dirhams mensili (circa 170 euro) nel settore agricolo. Per darvi un’idea delle disparità interne, la retribuzione di un dipendente pubblico è in media superiore dell’82% a quella di un lavoratore nel settore privato, senza considerare il fatto che il settore pubblico beneficia di un sistema pensionistico particolarmente generoso. Per farvi capire il potere di acquisto reale, un kg di carne di manzo costa in media intorno alla 10 euro, per le verdure comuni come patate, carote e pomodori siamo tra 60 centesimi e un euro al kg mentre la frutta è più cara, fino a 3-4 euro al kg. Insomma, non siamo ai livelli dell’Europa, ma neppure troppo lontano….

Il virus porta a galla le diseguaglianze rischiando di trasformare i diritti in privilegi e di far emergere conflitti sociali. L’isolamento impone una condotta rigida che non si adatta ai bisogni di chi è costretto a lavorare per mangiare ma che comunque va rispettata, al fine di limitare la diffusione dell’epidemia.

Tra i due mali, il male minore. Ma per quanto?
Quanto può costare la pace sociale, in un paese che non può offrire a tutti i cittadini e tutte le cittadine le stesse garanzie e le stesse tutele?

Alla fine di marzo di quest’anno, il Comitato Economico di Vigilanza (CVE) ha presentato pubblicamente delle misure di sostegno provvisorie che saranno adottate a favore delle famiglie che operano nel settore informale e che sono direttamente colpite dalle restrizioni mirate a ridurre la diffusione del virus. Data la complessità e la portata del problema, il CVE ha deciso di procedere in due fasi.
In un primo momento, a partire circa dal 06/04/2020, beneficeranno di aiuti economici i cittadini e le cittadine iscritti al Ramed, il Regime di Assistenza Medica per le fasce di popolazione più vulnerabili (che contava più di 10.000 persone iscritte nel 2017). Il Fondo per il Coronavirus trasferirà a queste famiglie degli “aiuti di sussistenza” sulla base dei seguenti criteri: 800 dirhams (circa 75 euro) per famiglie di due persone o meno; 1.000 dirhams (circa 95 euro) per famiglie da tre a quattro persone; 1.200 dirhams (circa 110 euro) per famiglie di oltre quattro persone. Il sistema è stato pensato per essere accessibile anche da casa. Il capofamiglia dovrà inviare il numero della sua carta Ramed via SMS, dal suo cellulare, al numero 1212, disponibile anche per fornire assistenza alle famiglie e chiarire dubbi rispetto alla situazione. E’ attesa invece per le prossime settimane una piattaforma di deposito per le dichiarazioni di quanti non sono iscritti al Ramed, lavoratori del settore informale e quanti hanno perso il proprio reddito a causa dell’isolamento obbligatorio, che dovrebbero beneficiare di aiuti successivi. L’indennità forfettaria mensile netta prevista per legge per i lavoratori e le lavoratrici iscritti/e alla previdenza sociale corrisponderebbe invece a circa 2.000 dirhams al mese (circa 197 euro).
Una situazione in evoluzione dunque, che se da una parte dimostra degli sforzi in atto per rispondere all’emergenza, dall’altra riesce a rassicurare solo in parte i dubbi e le angosce di ampi strati della popolazione privi di sicurezze per il futuro.
Chiudo queste due brevi pagine di riflessioni sulla diffusione del COVID-19 in Marocco con qualche riga su una zona di questo paese che mi è particolarmente cara essendo il territorio dove per primo ho vissuto, negli otto anni che sono trascorsi dal mio primo viaggio in questo paese. Si tratta della Regione del Draa-Tafilalet, a circa 200 km a Sud-Est di Marrakech, attraverso le montagne dell’Atlante verso il confine sud-orientale con l’Algeria. Un territorio essenzialmente rurale che negli ultimi 15 anni si è visto trasformare in destinazione di eccellenza per turisti da tutto il mondo desiderosi di spingersi fino alle prime dune del Sahara, per uno scatto tra le belle dune di Merzouga e Ch’gaga, magari da postare sul proprio profilo social. E’ il cosiddetto Grande Sud, una zona di frontiera in cui si mescolano Marocco Arabo e Marocco Africano, antica terra di carovane dove è ancora viva la cultura dei berberi, gli “uomini liberi” del deserto, che già aveva catturato l’immaginazione di tanti artisti e scrittori del ‘900 (si pensi al celebre “Tè del deserto” di Bowles). E’ difficile raccontare l’impatto del COVID-19 su questi territori, dove la gente ha risposto con compostezza e disciplina agli imperativi imposti dalla situazione, con la chiusura immediata di tutte le attività turistiche e ricettive (considerato comunque che la chiusura degli aeroporti e lo stop agli ingressi dall’Europa avevano già prodotto una sospensione forzata dal lavoro degli operatori turistici anche prima dell’obbligo imposto dalle autorità). Ma c’è preoccupazione nell’aria, soprattutto da parte delle generazioni più giovani.

Con i turisti se n’è andato anche il lavoro, lasciando l’evidenza di una economia locale fragile, ancora sconnessa e disarticolata, dove i saperi e gli equilibri tradizionali si sono persi nell’arco di meno di una generazione, lasciando un vuoto che se non colmato in fretta rischia di essere il motore di fenomeni di deculturazione nonché di emigrazione verso altre aree del Paese (Casablanca, Tangeri) o l’Europa.

Cosi, mentre  crescono i timori per l’impatto del nuovo coronavirus sull’economia mondiale, questi territori alle porte del deserto, normalmente esclusi dal dibattito pubblico, diventano ai miei occhi il simbolo di quanto gli equilibri del mondo cosiddetto globalizzato siano interconnessi, di quanto “periferia” e “centro” siano luoghi simbolici che esistono solo nell’occhio di chi osserva e di come sia impossibile continuare a pensare di tutelare solo una parte senza prendersi cura del tutto.

Condividi l'articolo: