Il “fiore della Birmania”, processata alla Corte dell’Aja


Articolo di Maria C. Ferrara
L’Organizzazione per la Cooperazione Islamica è riuscita oggi a processare la birmana alla Corte dell’Aja per rispondere dell’accusa di genocidio dei Rohingya.
I fiori che Aung San Suu Kyi ha tra i capelli sembrano più pericolosi dei fucili e delle parole dei suoi accusatori, la giunta militare la osteggia in ogni modo e lei continua imperterrita a sorridere al suo paese, nonostante le palesi difficoltà che ha dovuto affrontare dal suo ritorno in Birmania.
Il Premio Nobel per la Pace, è nata in Birmania 74 anni fa, trascorsi gli studi nelle migliori scuole indiane e inglesi e poi a New York ad Oxford, si specializza in un master in letteratura birmana . Ma nel 1988 decide di tornare in Birmania.
E’ proprio quello l’anno delle proteste studentesche contro il regime militare di Saw Maung. San Suu Kyi non può rimanere indifferente di fronte alla sua popolazione che lotta per degli ideali di libertà. Decide di entrare in politica e si propone come leader democratico del paese. Non farà più ritorno in Inghilterra.
Due anni dopo, la Lega nazionale per la democrazia da lei guidata, trionfa alle elezioni, ma i militari rovesciano il governo e Aung San Suu Kyi viene condannata a 12anni di arresti domiciliari.
Aung San Suu Kyi di aspetto esile, vorrebbe ristabilire l’unità tra le etnie del paese. Vorrebbe mediare per i 2.100 prigionieri politici rinchiusi nelle carceri birmane per aver espresso il loro pensiero. Si batte per instaurare un dialogo con la giunta militare. Ha vinto il Premio Sakharov e il Premio Nobel per la Pace nel 1991 e ha destinato i soldi della vittoria per la costruzione di scuole e ospedali nel suo paese.
Dalla Birmania, mezzo milione di sfollati sono costretti ad andare in Thailandia. In 70 anni di guerra si contano almeno 500 mila sfollati interni e oltre 130 mila sono scappati in Thailandia, dove hanno trovato rifugio nei campi profughi, costretti a vivere in condizioni di estremo disagio. E malgrado la situazione sarebbe dovuta cambiare con la vittoria alle elezioni del 2015 del National League for Democracy (Nld) guidato da Aung San Suu Kyi, nei territori abitati dai Karen la situazione è sempre la stessa. Pesanti attacchi delle truppe governative, infatti, sono in atto in diverse zone della regione e solo negli ultimi tempi, hanno costretto altre 5 mila persone ad abbandonare le proprie case.
Il rapporto delle Nazioni Unite del 2018, pubblicato a fine agosto, parla di violenze sistematiche contro civili, donne e bambini. Il documento, più di 400 pagine, redatto dopo quindici mesi di indagini e quasi 900 dichiarazioni, analizza la situazione in Birmania, compresi i Karen, i Kachin, gli Shan e i più conosciuti Rohingya, la popolazione musulmana considerata dall’Onu la più perseguitata al mondo.
Il 10 dicembre 2019, la leader della Birmania nonché premio Nobel per la Pace interviene davanti alla Corte internazionale di giustizia Onu, per rispondere delle persecuzioni contro i Rohingya.
L’accusa di genocidio contro il governo birmano è stata presentata dal Gambia, con il sostegno dei 57 membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic). Piccolo paese dell’Africa occidentale, il Gambia è a maggioranza musulmana.
Il processo all’Aja non la vede formalmente sul banco degli imputati, ma la vicenda dei rohingya ha da tempo offuscato la sua immagine internazionale di eroina della democrazia. Il procuratore del Gambia che segue il caso, Abubacarr Marie Tambadou, ex ministro della Giustizia del suo paese, ha chiesto oggi in aula che il Myanmar metta immediatamente fine alla persecuzione dei rohingya.
Gli inquirenti dell’Onu accusano i militari del Myanmar di aver condotto una serie di atrocità con “intento genocida”, contro i rohingya, minoranza musulmana in un paese a grande maggioranza buddista. Sotto accusa è una campagna militare condotta nel 2017 nello stato di Rakhine, sulla costa occidentale del Myanmar, che ha costretto 700mila persone a fuggire nel vicino Bangladesh. Si parla di villaggi rasi al suolo e dati alle fiamme, migliaia di morti e stupri sistematici. Il Myanmar considera i rohinya immigrati illegali e ha sempre negato loro la cittadinanza. Sia il governo che i militari hanno sempre respinto le accuse di atrocità.

“È profondamente sbagliato e controproducente parlare di genocidio contro in rohingya in Birmania”, queste le parole della leader birmana Aung San Suu Kyi chiamata a difendersi davanti alla Corte penale internazionale dell’Onu dall’accusa di “genocidio” contro la minoranza musulmana, compiuto nel 2016 e 2017.  Ha poi dichiarato che “non c’è alcuna prova dell’intento genocida e che questo non può essere l’unica ipotesi” nel caso rohingya. “Non si può escludere che i militari abbiano usato una forza sproporzionata”, ha tuttavia ammesso Suu Kyi, insistendo sul fatto che la Corte potrebbe non essere competente per giudicare il caso aperto dal Gambia.
La situazione attuale, viene documentata da foto, in cui si evidenzia la costruzione di recinzioni di filo spinato intorno al campo che ospita circa un milione di rifugiati e sfollati rohingya, che vive nello squallore nei campi profughi del Bangladesh. Centinaia di migliaia di persone, rimangono all’interno del Myanmar, confinati in campi e villaggi in condizioni disumane – nonostante il disappunto dei leader della comunità e delle ong umanitarie.  Altre recinzioni di filo spinato sono state piantate, nel grande accampamento a Balukhali nel distretto di confine sud-orientale di Bazar di Cox. Più di 730.000 musulmani rohingya sono fuggiti nel vicino Bangladesh dalla violenta repressione del 2017 da parte dell’esercito del Myanmar. La maggioranza buddista del Myanmar respinge le accuse genocidio.
Nonostante le circostanze saranno dibattute e accertate dall’Alta Corte Internazionale, un alone offusca l’immagine Aung San Suu Kyi, a causa della difficile situazione dei Rohingya, la minoranza musulmana perseguitata che vive nello stato occidentale di Rakhine. Ad ogni modo, la responsabilità della società civile é di tutelare i diritti umani di ogni essere umano ed eliminare ogni abominevole atto di violenza.
 
 
 
 
 

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